Oceano

Il Mediterraneo era perduto. Non c’era più molto che si potesse fare. Il cambiamento climatico aveva sciolto i ghiacci e fatto crescere il livello dei mari obbligando molte città e comunità a spostarsi verso l’interno. Era un mare morto, chiuso ed inquinato e in cui, dopo l’estinzione dei tonni, erano scomparse quasi tutte le specie di pesci medio grandi. Alcune comunità più povere e che pativano la fame mangiavano ancora pesce di mare, ma ci trovavano dentro grandi quantità di plastica.

La plastica delle bottiglie, delle reti da pesca abbandonate e di svariati altri oggetti, con i decenni, aveva cominciato a frantumarsi in microparticelle che si erano depositate sul fondo degli oceani e che viaggiavano con le correnti. Le reti abbandonate ci mettevano 500 anni per scomparire e nel frattempo continuavano a pescare pesci, tartarughe e delfini. Le bottiglie e i pezzi di plastica viaggiavano con le correnti e si concentravano in zone gigantesche di mulinelli, quasi delle isole, che ormai si vedevano dallo spazio. Ed il peggio non era visibile. Le grandi fosse oceaniche erano piene di microplastica che si depositava sui fondali ed attirava tossine di tutti i tipi.

Lei non era ancora stata creata. Esisteva solo nella mente del suo creatore, nei suoi sogni, nei suoi incubi.

Quel giorno in laboratorio arrivò presto la mattina, non si era ancora abituato all’odore delle zuppe che i giapponesi mangiavano a colazione. Viveva lì da cinque anni, aveva deciso di lasciare l’Europa dopo l’incidente capitato a sua moglie e sua figlia. Aveva lasciato anche il lavoro in una società privata e si era dedicato alla ricerca in un istituto pubblico giapponese. Ora la sua vita era la ricerca.

Arrivava presto in laboratorio e appena inseriva la tessera di riconoscimento, tutte le persiane automatizzate del laboratorio, si aprivano e si attivavano i macchinari. In lontananza dalla finestra del suo ufficio si vedeva il mare luccicante alla luce dell’alba. Da quando viveva qui non era più andato molto spesso al mare, gli ricordava troppo la sua famiglia.

Appena arrivato in ufficio, si diresse subito al suo acquario. Era il luogo dove metteva gli organismi quando avevano già superato tutti i test. Studiando i movimenti della plastica e sperimentando le sue caratteristiche di resilienza, aveva sviluppato l’idea di creare un organismo sintetico in grado di viaggiare per i mari e aggregare a sé i rifiuti di plastica fino a diventare un’entità così grossa da poter essere semplicemente pescata e mandata al riciclo o all’incenerimento. Gli studi avanzavano, lentamente ma avanzavano. Aveva usato uova di meduse e, modificando il DNA sperava di fare in modo che queste meduse inglobassero nel loro corpo e nei filamenti particelle di plastica e traessero da questa nutrimento per accrescersi.

L’acquario che aveva davanti a sé, pieno di una brodaglia di microplastica, era il test definitivo. Gli ultimi organismi testati erano stati in grado di attirare qualche pezzo di plastica ma dopo poco erano morti e li aveva trovati galleggianti sulla superficie. Quella mattina però, quando accese le luci dell’acquario, vide il parallelepipedo di vetro completamente limpido e una grossa medusa multicolore che galleggiava muovendosi nell’acqua cristallina allungando i suoi tentacoli che ormai avevano inglobato svariati pezzi di plastica.

Con il passare delle ore, la sostanza gelatinosa che componeva il corpo della medusa aveva ricoperto e mangiato anche i pezzi di plastica più grossi che oramai erano parte dell’organismo e nuotavano e si muovevano con esso.

Erano tutti lì, con il naso attaccato al vetro dell’acquario, era divertente sentire come i giapponesi manifestavano la loro sorpresa. Erano rumorosi e facevano dei gran ohhh in tonalità diverse. Se non fosse stato per quell’immagine che aveva in testa e quei rumori così buffi, si sarebbe messo a piangere di gioia. Era il raggiungimento di una vita di lavoro.

Più che una medusa ormai era una rete fitta, le sue prede incastonate e il corpo che si estendeva per tutto lo spazio disponibile in modo da catturare fino all’ultimo frammento di plastica.

Lasciò il laboratorio alle 14. L’autista lo accompagnò in città. Lì il mare non si vedeva più e perfino il cielo era un insieme di frammenti tra un grattacielo e l’altro. Salì al trentesimo piano. Lo stavano aspettando, e mentre il suo capo espletava tutte le formalità di rito, lui pensava a quando fosse riuscito a tornare nel suo laboratorio, con in mano un assegno per i prossimi dieci anni. La squadra sarebbe stata felice. Ma fu proprio a pochi minuti dall’inizio della sua presentazione che una segretaria irruppe nella sala riunione e bisbigliò qualcosa al più anziano degli investitori. Era trafelata, il volto paonazzo. L’anziano fece un gesto alla donna e quella prese il telecomando e cambiò dalla presentazione ad una canale della tv nazionale. Era in giapponese, ma le immagini furono subito chiarissime per tutti. Qualche ora prima c’era stato un terremoto al largo, qualcosa di abbastanza comune negli ultimi anni, ma questo era stato più forte anche se molto in profondità. Avevano temuto un maremoto, ma nulla era arrivato. Ora però un’onda si abbatteva sulla costa trascinandosi dietro tutto quello che trovava sul suo percorso. L’onda si era abbattuta sul laboratorio con tutta la sua energia ma non era chiaro cosa fosse accaduto dopo.

La riunione fu sospesa e il gruppo si disperse. Mentre tornava verso il laboratorio lui e il suo capo videro ciò che quelle telecamere non avevano saputo mostrare, a livello delle strade, in basso rispetto agli edifici. Mano a mano che si andava verso la zona del laboratorio, tutto era svanito e polverizzato, ricoperto da una melma viscida e pesante.

Quando arrivarono, già da lontano videro che non era rimasto più nulla, solo alcune aree semi distrutte del primo piano. Intorno era il caos.

Quello era stato il momento in cui la creatura era diventata libera. Tornò a casa, non più come qualcosa che era parte di quel mondo, ma come qualcosa parzialmente estraneo. Era un organismo sintetico ed era affamata.

Da lì le cose accaddero velocemente. Lui diceva a tutti che non c’era di che preoccuparsi, che la creatura non era un organismo con capacità celebrali sviluppate, per cui non avrebbe potuto diffondersi. Presentò degli studi, analizzò mille volte il DNA. La vita della creatura in libertà, assicurava, sarebbe stata breve e solitaria.

Ci furono delle ispezioni sul luogo del laboratorio, vennero fatte delle analisi ma non si trovò più nulla e il seguire degli eventi inaspettati che colpirono diverse zone del pianeta nei mesi successivi, fece passare in secondo piano l’incidente in Giappone. La terra si stava ribellando. C’era stata un’accelerazione dopo il 2017. Quello era stato l’anno del non ritorno, quando i meccanismi innescati non sarebbero più stati reversibili e anzi, le poche previsioni fatte avrebbero subito un’accelerazione che pochi potevano provare ad indovinare.

Lui, dopo che il laboratorio con l’unico organismo di sintesi funzionante era stato distrutto, cadde in una profonda depressione. Aveva fallito ed il ricordo dell’incidente che aveva causato la morte della moglie e della figlia tornava a visitarlo in sogno rimarcando la gravità di quel fallimento.

Quel giorno la figlia con la moglie erano andare in spiaggia per un picnic. Ai tempi vivevano in Grecia, era una di quelle calde giornate di fine maggio in cui le spiagge sono ancora deserte e il mare della Grecia regala un’acqua meravigliosa. Sua figlia stava nuotando con pinne e boccaglio quando vide dei pesci intrappolati in una rete poco sotto di lei. Era una di quelle reti sottili che nell’acqua cristallina con i raggi del sole che fanno brillare ogni movimento della superficie, quasi non si vedono. Era scesa in apnea di qualche metro per toccare i pesci intrappolati, ma senza accorgersi doveva essere rimasta intrappolata lei stessa in quelle sottili maglie di plastica letale. Non era più tornata a galla e la moglie di lui, dalla spiaggia mentre leggeva, si era accorta solo dopo un po’ che la figlia non era più visibile. Era corsa là dove l’aveva vista l’ultima volta e con la testa sotto, in quell’acqua cristallina, aveva subito visto il costume verde e il corpo che oscillava inerme e intrappolato alla caviglia. Si era subito immersa cercando di sfilare la pinna alla bambina ma nella foga anche lei era rimasta impigliata e non capiva dove. Tirò forte mentre il corpo della sua bambina le andava contro incastrandola ancora di più in quei fili invisibili e letali. L’avevano trovate tutte e due vicine, come sirene stanche che dormivano nella corrente. Quando avevano estratto i corpi dal mare avevano dovuto portarle insieme fino alla spiaggia per poi tagliare quei fili che le legavano unite in un pizzo infernale. Lui era arrivato in quel momento e le vide così, avviluppate in quel bozzolo di fili di plastica, la pelle già gonfia e bianca.

Ora, perseguitato da questo ricordo, vagava per casa pensando agli oscuri anfratti dell’oceano, immerso in visioni oscure di sua moglie e sua figlia intrappolate da un essere tentacolare. Si svegliava di giorno e di notte, sul divano o nel letto, in un bagno di sudore gelido e cercava di continuare a ripetersi che l’organismo doveva essere morto. In parte sentiva di aver fallito, proprio nel momento in cui era così vicino ad una soluzione. Guardava e riguardava le carte ed i dati che erano sopravvissuti alla distruzione del laboratorio. Poi però pensava a quell’essere. Arrivava ad immaginare che l’onda fosse stata colpa sua. La natura aveva voluto distruggere quel suo gioco pericoloso e aveva travolto sul percorso tutto quello che aveva incontrato. O forse aveva voluto prendersi quell’essere per portarlo a sé. Studiava e ristudiava il codice genetico per capire quali fossero le possibilità per quell’essere di riprodursi. Ogni tanto andava al mare e scrutava l’acqua.

Non tornò più in un laboratorio e i pochi dottorandi che gli erano vicini e avevano lavorato con lui in quegli anni, videro come la vita e il fuoco della sua missione si andavano spegnendo piano piano in lui. Rimaneva un guscio vuoto, preda di tutto il dolore che negli anni precedenti era riuscito a tenere distante con la scusa del lavoro.

Quando gli diagnosticarono il cancro, pensò per un attimo di tornare in Europa, ma lì non c’era più nulla di simile ai suoi ricordi. In quegli ultimi anni gran parte dell’Europa era diventata semi desertica ed il Mediterraneo un mare sterile.

Fu qualche mese dopo che si svegliò una mattina con un pensiero nella mente chiarissimo. Aveva fatto un sogno meraviglioso. La moglie e la figlia erano sirene che nuotavano libere in un mare blu, profondissimo. Giocavano tra loro in pirolette e fughe tra le alghe verde brillante. Sapeva che quello era il momento e appena aprì gli occhi, gli venne anche in mente il luogo. Si preparò con cura, senza fretta. Mise uno di quei gilè a quadretti che ne facevano lo zimbello dei suoi dottorandi. Nei mesi scorsi era stato molto male, il tumore nei polmoni gli aveva reso ogni movimento una fatica insopportabile. Gli mancava l’aria ed era scosso da attacchi di tosse terribile. Ogni tanto, durante questi episodi, fiotti di sangue gli uscivano dalla bocca. Da un paio di mesi prendeva solo dei pagliativi per il dolore. Quel giorno però si sentiva incredibilmente bene. Uscì di casa con la sua giacca di pelle preferita. Dovette scavare nel fondo dell’armadio per ritrovarla. Non l’aveva più messa. Prese con sé solo il peluche della figlia. Era l’unica cosa che aveva portato nel trasloco in Giappone, era il suo preferito. Accostò la porta di casa, non chiuse. Si mise in macchina e raggiunse una zona della costa in cui c’era uno strapiombo sul mare ricoperto di bassi cespugli e sempre ventoso.

Negli ultimi anni, da quando aveva ripreso a passeggiare lungo mare, gli piaceva venire in questo posto. Da qui il mare sembrava ancora come era una volta. Forse più minaccioso ed imprevedibile, ma da qui non si poteva vedere la massa di porcherie che c’erano dentro e di cui tutte le spiagge erano piene. Sembrava l’oceano come sarebbe dovuto essere.

Lasciò la macchina al parcheggio. Il vento alzava polveroni di terra secca e riarsa. Da mesi non faceva neppure una goccia. Una parte del pianeta stava letteralmente morendo di sete. Nei giorni precedenti si sarebbe sentito responsabile anche di quegli eventi, ma oggi, era completamente distaccato da tutto. Solo per pochi attimi, prima di fare gli ultimi passi verso il vuoto della scarpata, si fermò a pensare alla creatura che aveva creato e a come gli sarebbe piaciuto vederla un’ultima volta. Si gettò nel vuoto pensando solo più alla sua famiglia e poi l’oscurità.

In quel momento la creatura, rilasciata dal laboratorio, vagava nell’Oceano. Non doveva essere distante dalla costa da cui era partita l’onda che l’aveva liberata. Oscillava nell’acqua, i tentacoli stesi ad assorbire la plastica che le galleggiava intorno. La sua fame era un vortice, sentiva la necessità di crescere, espandersi, stirare il suo corpo gelatinoso più in là, per catturare altro cibo. Non sapeva ancora come fare, ma sentì la chiamata misteriosa del suo creatore. Fu come un urlo, un ultrasuono che attraversava le onde, sprofondava negli abissi ed era riverberato ovunque. Lo percepì e si mosse per cercarlo. Lo trovò. Il suo corpo era ancora intatto, galleggiava inerme, gommoso. Qualcosa di diverso dalla vita pulsava ancora in lui, come una carica elettrica debole dalla quale la creatura era attirata. Allungò un tentacolo verso la sua gamba e l’afferrò stretta. L’impulso elettrico si sentiva più forte. Con un secondo tentacolo strinse il collo e provò una scarica molto più forte. Dalla parte dietro del collo, gli impulsi neuronali sotto forma di pulsazioni elettriche si propagavano nel corpo, per tutto il sistema. Forzò un tentacolo alla base del collo su verso il cervello. La carne era morbida e si apriva al suo passaggio. Tra loro scorreva energia pura, dal corpo gelatinoso a quello umano e viceversa. La creatura fu investita dai ricordi del creatore, dalle immagini delle sue ultime ore di vita. Così apprese cosa era accaduto prima della sua esistenza. Fu l’inizio della sua nuova vita. L’onda l’aveva portata in libertà ma il cervello del suo creatore le aveva dato qualcosa di più prezioso. Tutto le era chiaro ora. Collegata al cervello del suo creatore condivideva con lui i pensieri, sapeva come espandersi, come riprodursi.

Da quel giorno erano passati quasi 80 anni. L’umanità non profanava più questa terra da circa 50 anni. In pochi anni i cambiamenti divennero troppo veloci e collegati l’uno all’altro fino a far scomparire ogni risorsa di acqua potabile, ogni possibilità di praticare l’agricoltura. Le temperature erano insopportabili quasi ovunque. Il resto lo fecero gli uomini stessi. Quelli che erano in fuga dalle loro case travolsero chi ancora stava bene. Così tante persone non erano fatte per vivere in così poca terra. Si distrussero finché non rimasero pochi superstiti in uno stato quasi primitivo. Presto anche quelli furono travolti. A quel punto la Natura si riprese il pianeta e il silenzio era rotto solo dagli eventi atmosferici che facevano il loro corso. La terra toccò il fondo. Lei intanto giaceva sul fondale dell’oceano. Era ovunque e conosceva ciò che accadeva in ogni anfratto, in ogni fossa oceanica e su ogni spiaggia devastata dagli eventi atmosferici. Si nutriva e si espandeva. Prima della morte del suo creatore si era limitata a sopravvivere. Ora invece, lui viveva in lei ed lei era lui. Insieme si sono estesi in tutti gli oceani, i mari ed i fiumi a cui sono riusciti ad accedere. L’umanità è scomparsa ed i cieli, dopo essere diventati fuoco e fiamme, sono tornati neri e profondi e le nuvole si sono aperte. Il corpo della creatura ha assorbito tutta la plastica delle acque. È diventata essa stessa una gigantesca rete, ha filtrato tutta la superficie ed è penetrata fino nei fondali più oscuri. La vita ora, grazie a lei sta tornando. Piccoli pesci hanno ripreso a nuotare in un’acqua cristallina e depongono le loro uova sui suoi tentacoli come fossero antiche mangrovie. La vita finalmente ricomincerà. Nulla è perduto.

Samara Croci

Ho scritto questo racconto a marzo del 2017 pensando di scrivere un racconto in parte di fantascienza. E’ di questi giorni la notizia che è stata trovata una creatura simile ad una medusa che ingloba nel suo corpo la microplastica dei mari. Qui potete leggere l’articolo in inglese.

Ringrazio moltissimo Sara Meddi per la revisione del racconto e per aver sopportato tutte le prime bozze e le lunghe attese! :*

Ringrazio anche Alessandro Bonaccorsi che mi ha dato la possibilità di utilizzare una sua illustrazione per questo racconto. Il titolo è JELLYFISH e il copyright è suo. 

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Questo racconto è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

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