10 anni dopo Kapuściński: l’universale nei dettagli

Tempo fa mi sono segnata in agenda che il 23 gennaio del 2017 sarebbero stati 10 anni dalla morte di Ryszard Kapuściński, il grande reporter polacco che ha scritto da mezzo mondo reportage bellissimi, sia come corrispondente esteri e sia anche come grande scrittore di reportage di ampio respiro.
Avrei voluto dare una rispolverata ai suoi libri ma sono ancora negli scatoloni del trasloco inaccessibili, allora ho deciso di riflettere sui suoi eredi e sui giornalisti e scrittori che a mio parere dopo di lui hanno percorso strade simili, magari con stili diversi, ma comunque con obiettivi comuni.

Per chi non conoscesse Kapuściński, consiglio vivamente di iniziare con la lettura di “In Viaggio con Erodoto” in cui racconta come il libro de “Le Storie” di Erodoto lo abbia accompagnato in tutti i suoi viaggi e le sue avventure nel mondo e come gli abbia ispirato un metodo, un approccio, sia alle storie che alle persone. Poi sicuramente “Imperium” sull’ex-Unione Sovietica o “Ebano” sull’Africa. E poi, per chi veramente volesse fare questo lavoro, forse anche “Il cinico non è adatto a questo mestiere”. In ogni caso, qualunque libro scegliate, non capiterete male. Sono tutti reportage appassionanti.
Esistono anche diverse interviste interessanti fatte a Kapuściński, da Paris Review, nel ’91 (audio) e il documentario a lui dedicato dal titolo: “Kapuściński, A Poet from the Frontline”, qui in un estratto breve.

Quello su cui mi sono persa a pensare è però la sua eredità dieci anni dopo. Allora mi sono ricordata di una conferenza tenutasi al festival di giornalismo di Internazionale a Ferrara, nel 2012 dal titolo:  “Gli eredi di Kapuściński”. I relatori erano appunto 3 reporter polacchi che venivano identificati come le voci del reportage polacco, quella scuola che molti attribuiscono a Ryszard Kapuściński e ad Hanna Krall.
– Wojciech Jagielski, autore di “Le torri di pietra. Storie dalla Cecenia” (Bruno Mondadori, 2005)
– Mariusz Szczygiel, autore di “Fatti il tuo paradiso” (Nottetempo, 2012)
– Wojciech Tochman, autore di “Come se mangiassi pietre” (Keller, 2010)
I punti emersi durante la conferenza erano proprio quelli che più caratterizzano un giornalismo di reportage di scuola polacca.

Per questo tipo di giornalismo, bisogna capire prima di tutto il proprio posto all’interno della storia che si scrive, perché il reportage narrativo racconta la verità come la percepisce l’autore, racchiudendo emozioni, sensazione e idee. I fatti però sono sacrosanti.
Ma di cosa parlano i reporter della scuola polacca? Non sono analisi politiche, ma affrontano ciò di cui la gente ha paura, come amano quando sono felici, come odiano, come vivono nelle loro paure. Sono cose che interessano tutti perché sono passioni umane.

Mariusz Szczygiel, uno degli ospiti alla conferenza, ha condiviso poi un pensiero molto interessante su quella che può essere l’origine e il quid del reportage polacco rispetto ad altri. Ogni storia inizia secondo lui da un dettaglio, perché non esiste memoria senza dettagli, sono l’impalcatura del ricordo. Durante il comunismo, il dettaglio era trattato dai giornalisti in modo particolare, perché c’era la censura. I reporter polacchi prendevano i dettagli e ci nascondevano dentro l’universale. Si trattava di leggere tra le righe. A fare scuola su questo metodo era stata Hanna Krall, ma spesso si coglie questa dualità – piccolo e umile –> universale – anche in Kapuściński.

Ma quali sono i consigli per scrivere reportage così? Sempre Mariusz Szczygiel durante la conferenza ha dato una risposta magistrale: “per prima cosa bisogna leggere! Per scrivere una pagina propria, prima bisogna leggerne 100 di testi altrui”.

E allora mi sono tornate in mente anche tutte le polemiche su giornalismo narrativo e giornalismo puro ed anche un’altra conferenza a cui ho assistito il primo anno del festival di Internazionale a Ferrara in cui Roberto Saviano conversava con William Langewiesche sul tema di “Raccontare la realtà”. Da quella conferenza Internazionale aveva tratto un libriccino che riportava la conversazione tra i due e che ha lo stesso titolo. I due conversavano sul perché il giornalismo narrativo offrisse maggiori possibilità del giornalismo tradizionale, schiacciato in scadenze sempre più strette ed impossibilitato ad approfondire e a creare un’identificazione forte con il lettore. Inoltre ipotizzavano che forse il giornalismo narrativo potesse essere meno condizionato dai poteri economici. Anche loro comunque avevano identificato una regola per questo genere che è molto simile a quella della scuola polacca: raccontare cose locali con un respiro umano universale, rendendo realtà lontane, vicine, e problemi distanti, parte di noi.
Saviano durante la conferenza ha citato un detto spagnolo che dice: “quando c’è un’inondazione, la prima cosa che scompare è l’acqua potabile”. E forse è quello che succede già da diversi anni e che spinge anche me a tenermi cari i reporter di questo tipo che scopro sul mio cammino. Siamo bombardati da informazioni costanti e da tutti gli angoli del pianeta, ma spesso, le notizie ci arrivano prive di bravi narratori, raccontate di corsa e asciugate dalle emozioni e quindi ci scivolano addosso senza lasciare traccia.

Kapuściński nel suo “Il cinico non è adatto a questo mestiere” dice che è sbagliato scrivere di qualcuno senza averne condiviso un po’ la vita. E poi aggiunge che tra i motivi per cui scrive ci sono anche ragioni etiche: “perché i poveri di solito sono silenziosi. La povertà non piange, la povertà non ha voce. La povertà soffre, ma soffre in silenzio. La povertà non si ribella. Avrete situazioni di rivolta solo quando la gente povera nutre qualche speranza(…) Questa gente non si ribellerà mai. Così ha bisogno di qualcuno che parli per lei. Questo è uno degli obblighi morali che abbiamo quando scriviamo di questa infelice parte della famiglia umana”.

E allora mi è venuta in mente un’altra riflessione di uno scrittore che scrive giornalismo narrativo. E’  lo spagnolo Martín Caparrós che, nel suo libro Non è un cambio di Stagione”, si chiede: “Perché faccio il giornalista in zone povere e di guerra? Non per soldi, sarebbe più facile se fosse così, ma non è per questo. Devo supporre che mi piaccia e questo è difficile da accettare”.

E questo è un tratto comune a molti dei reporter le cui storie mi hanno segnata. Spesso le loro riflessioni si soffermano sull’eticità del raccontare storie di persone reali, sull’arroganza di decidere che si è in grado di definire una realtà che invece è sfaccettata. E questo atteggiamento di continua incertezza, credo sia ciò che li rende più umani e più empatici e fa si che le loro storie siano così emozionanti.

Kapuściński pare che una volta disse: “La scrittura e la fotografia sono l’illuminazione momentanea di persone e fatti immersi altrimenti nel buio del mondo”.

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Fonte: Doppiozero.com

Ecco allora alcuni dei nomi di quelli che per me hanno saputo accendere quella luce nel buio del mondo di cui parla Kapuściński e anche quelli che per me, profana, sono i suoi eredi/precursori, magari con stili diversi, ma con quella stessa capacità di nascondere l’universale nei dettagli e raccontare la grande Storia con quelle più piccole e meno conosciute.
Truman Capote (A Sangue Freddo), Steinbeck (Furore), Ahmed Rashid (Caos Asia), Philip Gourevitch (Rembering in Rwanda), David Van Reybrouck (Congo), Martín Caparros (La Fame), Paolo Rumiz, Svetlana Aleksievic e anche Elsa Morante (La Storia).

Samara

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